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Più di una imprenditrice o lavoratrice autonoma su due non si è fatta travolgere, nemmeno psicologicamente, dall’annus horribilis 2020. Addirittura, quasi il 40% di questa platea in rosa l’anno scorso si è impegnato in maniera proattiva, a esempio riorganizzando la propria attività, o ha continuato a lavorare registrando a fine anno risultati economici positivi. Viceversa, il 47% circa assicura che, se l’emergenza non sarà superata in breve tempo, potrebbe ridimensionare fortemente la propria attività (39,1%) o addirittura chiudere i battenti (8,3%). È quanto emerge da una indagine condotta dal Centro studi CNA in collaborazione con CNA Impresa Donna in occasione della festa della donna in un campione rappresentativo di iscritte alla Confederazione, circa 1.400, di cui circa un 10% modenesi.

Il 2020 è stato un anno particolarmente duro per le donne lavoratrici, sia perché la crisi ha picchiato in particolare le attività dove sono presenti in maggior misura le donne, sia perché sono spesso queste ultime a pagare un welfare che penalizza proprio le figure femminili, costrette spesso a scegliere tra la professione e la famiglia. Degli oltre 440mila posti di lavoro persi l’anno scorso in Italia, rileva l’Istat, il 70% circa era occupato da donne.

L’asimmetria dell’impatto della crisi sul mercato del lavoro italiano discende dal fatto che i settori maggiormente bersagliati dalla crisi sono quelli che rientrano in filiere (moda, turismo, attività culturali, servizi alla persona) dove maggiore è la presenza femminile in termini di occupazione. E dove è anche maggiore la presenza femminile nell’imprenditoria e nel lavoro autonomo. Se la media dell’occupazione indipendente femminile tra industria e servizi è pari al 31,2%, nelle “altre attività di persone” (in cui rientrano i servizi alla persona) tocca il 57,9%, nell’abbigliamento il 52,8%, nella sanità e l’assistenza sociale il 46,5%, nell’istruzione il 42,3%, nell’alloggio e ristorazione il 41,8%, nel tessile il 41%. Anche l’occupazione indipendente femminile è uscita ridotta: mentre tra il 2009 e il 2019 il numero di donne che lavorano come indipendenti era rimasto pressoché costante, accusando un calo dello 0,4% a fronte del -8,8% maschile, nei primi nove mesi dell’anno scorso queste tendenze si sono però invertite: a fronte del -3,9% femminile, la componente maschile del lavoro autonomo si è fermata al -2,2%.

A livello psicologico, il 2020 ha avuto un impatto negativo: il 60,5% delle intervistate lo ha vissuto con sentimenti di preoccupazione, all’opposto il 37,5% ha affermato di aver guardato al futuro con speranza e fiducia.

Sono ben quattro intervistate su cinque a essere deluse dall’atteggiamento complessivo dell’opinione pubblica rispetto al loro lavoro, che è meno considerato di quello degli uomini. Un atteggiamento, a loro parere, condiviso dalla politica: due intervistate su tre lamentano la scarsa o nulla considerazione percepita.

Le imprenditrici maggiormente critiche nei confronti della politica sono anche quelle per le quali le tante difficoltà riguardanti la gestione dell’impresa non sono state compensate da misure di ristoro su misura per le donne imprenditrici. Questa chiave interpretativa sembra trovare conferma quando si vanno a considerare i giudizi per le misure inserite nella Legge di Bilancio 2021 a favore dell’imprenditoria femminile e la parità di genere. I contributi a fondo perduto, che sono la misura ritenuta più utile dalle intervistate (53%), trovano un maggior favore nell’area delle imprenditrici preoccupate (57,1%). Rispetto a queste ultime, le imprenditrici “ottimiste” esprimono invece un maggior favore per quelle misure in grado di favorire la gemmazione di nuove attività (finanziamenti agevolati e a tasso zero per avviare nuove imprese) e il consolidamento di quelle esistenti: percorsi di assistenza tecnico-gestionale e investimenti nel capitale a beneficio delle imprese.

Infine, anche la valutazione delle misure ritenute più idonee per favorire la conciliazione famiglia-lavoro delle imprenditrici e delle lavoratrici autonome appare influenzata dal modo in cui le imprenditrici hanno vissuto l’anno della pandemia. Se infatti, complessivamente quasi il 51,4% delle intervistate indica negli investimenti in servizi per l’infanzia (asili nido e scuole materne) e per l’assistenza agli anziani la misura su cui puntare principalmente, questa preferenza viene espressa con maggiore decisione dalle imprenditrici “più reattive” (quasi il 55%). Rispetto alla media, le imprenditrici “più preoccupate” esprimono invece un maggior favore per misure fruibili nell’immediato (assegno per unico per figli a carico e voucher per acquistare servizi utili alla conciliazione famiglia-lavoro) ritenute le più necessarie per compensare, almeno in parte, la riduzione del reddito derivante dalla crisi.