Il lavoro congiunto di oltre 150 scienziati, unito all’enorme potenza di calcolo garantita dall’intelligenza artificiale, al servizio delle nostre foreste: per conoscerle meglio, scoprire come stanno cambiando e capire come proteggerle. I risultati di questo imponente impegno – promosso dagli studiosi della Global Forest Biodiversity Initiative – sono stati pubblicati in tre articoli scientifici, due dei quali usciti su Nature e uno su Nature Plants.

“Grazie al contributo combinato di centinaia di ricercatori e dell’intelligenza artificiale è stato possibile far fare alla scienza un grande salto in avanti nella comprensione dell’ecologia delle foreste del mondo ed evidenziare così ulteriormente la necessità della loro protezione”, dice Roberto Cazzolla Gatti, professore al Dipartimento di Scienze Biologiche, Geologiche e Ambientali dell’Università di Bologna e coautore dei tre studi. “Senza la capacità di calcolo dei supercomputer e dell’intelligenza artificiale avremmo avuto bisogno di decine di anni e migliaia di persone dedicate, senza nemmeno la certezza di ottenere delle stime e delle previsioni attendibili”.

 

SPECIE ALIENE E DIVERSITÀ NATIVA

Il primo tema su cui si sono concentrati gli studiosi è l’invasione di alberi non autoctoni: un fenomeno fondamentale da capire se vogliamo tutelare gli ecosistemi nativi e limitare la diffusione di specie invasive. Quali sono i fattori che scatenano e favoriscono questo processo?

Analizzando i database degli alberi a livello globale, gli studiosi hanno determinato che la temperatura e le precipitazioni sono forti predittori della strategia di invasione: le specie non autoctone invadono con successo un territorio quando sono simili alla comunità nativa in condizioni estreme di freddo o siccità.

C’è un altro elemento, però, che ancora di più favorisce la diffusione di specie invasive: l’attività umana, in particolare in ambienti come le foreste gestite o vicino a strade e porti marittimi.

“Non solo i fattori antropici sono fondamentali per prevedere se un luogo sarà invaso da alberi non autoctoni, ma la gravità dell’invasione è regolata dalla diversità nativa: una maggiore diversità riduce la gravità dell’invasione”, aggiunge Cazzolla Gatti. “Quindi, piuttosto che lottare contro le specie aliene quando è ormai troppo tardi, dovremmo impegnarci a proteggere la salute delle foreste: questo di per sé, come negli altri ecosistemi, renderebbe molto più difficile a una specie aliena la diffusione e l’invasività”.

 

SERBATOI DI CARBONIO?

Oggi sappiamo che la protezione delle foreste è fondamentale anche per preservare la loro capacità di catturare l’anidride carbonica e diventare quindi serbatori di carbonio terrestre. Ma qual è il potenziale globale di carbonio che le foreste potrebbero trattenere?

È il tema del secondo studio pubblicato su Nature, da cui emerge che attualmente il carbonio forestale globale è significativamente al di sotto del potenziale naturale. Circa il 61% di questo potenziale si trova in aree con foreste esistenti, dove la protezione dell’ecosistema può consentire alle foreste di recuperare fino alla maturità. Il restante 39% si trova invece al di fuori dei terreni urbani e agricoli, ma in regioni in cui le foreste sono state rimosse o frammentate.

“Sebbene le foreste non possano da sole sostituire la necessaria riduzione delle emissioni di anidride carbonica in atmosfera, i nostri risultati supportano l’idea che la conservazione, il ripristino e la gestione sostenibile di diverse foreste possano offrire contributi preziosi per raggiungere gli obiettivi globali per la tutela del clima e della biodiversità”, spiega Cazzolla Gatti. “Abbiamo potuto verificare, per la prima volta, che nonostante le variazioni regionali, le previsioni su scala globale hanno una notevole coerenza, con una differenza solo del 12% tra le stime effettuate da terra e quelle derivate dal satellite. Le foreste sono insomma un importante serbatoio di carbonio terrestre, ma i cambiamenti antropogenici nel clima e nell’uso del territorio riducono la loro capacità di assorbimento”.

 

TIPI DI FOGLIE E CAMBIAMENTO CLIMATICO

Nel loro lavoro di indagine e analisi, gli studiosi si sono poi spinti anche oltre, cercando di comprendere nel dettaglio quali siano i fattori che controllano la variazione globale del tipo di foglia negli alberi, per capireil ruolo delle specie arboree negli ecosistemi terrestri, inclusi il ciclo del carbonio, dell’acqua e dei nutrienti.

In questo modo, gli scienziati hanno scoperto che la variazione globale tra sempreverdi e decidue è determinata principalmente dall’isotermia e dalle caratteristiche del suolo, mentre la tipologia di foglie è determinata prevalentemente dalla temperatura. In particolare, hanno stimato che il 38% degli alberi globali siano sempreverdi a foglia aghiforme, il 29% siano sempreverdi a foglia larga, il 27% siano decidui a foglia larga e il 5% siano decidui a foglia aghiforme.

“A seconda dei futuri scenari di emissioni di gas climalteranti, entro la fine del secolo una quota compresa tra il 17 e il 34 per cento delle aree forestali sperimenterà condizioni climatiche che attualmente supportano un diverso tipo di foresta: fino a un terzo del polmone verde terrestre potrà quindi essere sottoposto a un forte stress climatico”, sottolinea Cazzolla Gatti. “Quantificando la distribuzione dei tipi di foglie degli alberi e la biomassa corrispondente e identificando le regioni in cui il cambiamento climatico eserciterà la maggiore pressione sugli attuali tipi di foglie, i risultati di questo studio possono aiutare a migliorare le previsioni sul funzionamento degli ecosistemi forestali e del ciclo del carbonio”.