Libreria Incontri Editrice di Sassuolo ha dato alle stampe Parole del Frignano di Battista Minghelli, lo studioso scomparso nel 2001.
Il volume di circa 250 pagine, curato dal poeta Emilio Rentocchini, racchiude una scelta delle parole studiate da Battista Minghelli nel corso di una intera vita, vissuta all’ombra del Cimone, nella sua amatissima S. Andrea Pelago.


Si tratta di un severo studio etimologico del lessico dialettale del territorio che va da Serra a Pavullo fino a Fiumalbo, ma in virtù della qualità di scrittura dell’autore, ogni voce apre a chi legge un mondo di stupefacente freschezza e verità.
Le parole, come succede se l’inchiostro e’ quello di un poeta, prendono davvero vita diventando i paesaggi, gli oggetti, gli animali, gli uomini, i pensieri e i sentimenti di una grande civiltà ormai scomparsa, eppure pronta a rinascere come per incanto ad ogni pagina.

Battista Minghelli (1923-2001) nasce a Sant’Andrea Pelago, in provincia di Modena e nel piccolo paese alle falde del Cimone vive tutta la vita.
Laureato in lettere classiche, ha svolto attività di insegnante, poi di preside, nelle scuole medie .
Tra il 1984 e il 1999 ha dato alle stampe in proprio 5 volumi di ricerche linguistiche: “Le parole dell’alto Frignano”, da cui sono state selezionate le voci presentate nella nuova pubblicazione curata da Emilio Rentocchini per Libreria Incontri Editrice.
Parole del Frignano è un volume importante, che parla di una terra carica di valori, di memorie.


Fra le tante definizioni contenute in “Parole del Frignano” riportiamo una sintesi della voce “Tabarro”.
Il Tabarro dunque, il mantellone verdognolo o nero-merlo o grigio-cornacchia, dentro le cui spire gli adulti o i giovani vicino agli anta, si avvolgevano per uscire nelle sere di bùgara. Poi c’era anche la tabarina, una mantella più corta e leggera. Tabarro e tabarina appartenevano al vocabolario dei matusa dell’epoca, e Dio sa quanto ci sembravano vecchi anche quelli che contavano appena vent’anni. I pochissimi che oggi, d’inverno, indossano incongrui tabarri usciti dalle casse come mummie dai sarcofagi, sembrano creature sortite dalle caverne del tempo…

Da tabarro era germinato tabarìn, niente da spartire col noto caravanserraglio di lussuriosi. “Fare e tabarìn” voleva dire semplicemente chiudersi in se stessi, raggomitolarsi in preda al freddo o a un male insidioso, maligno; insomma come chiudersi dentro un figurato tabarro in cerca di calore o per prefigurare a se e agli altri l’imminenza di un fato cui ci si arrende rassegnati
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