C’è una festa che sabato compie 120 anni, ma che è ancora molto attuale. La festa del lavoro del Primo Maggio nasce infatti nel 1890 e divenne poi festa civile. Il Governo Mussolini nel 1923 la sopprime, ma la ricorrenza sopravvive nella memoria dei ceti subalterni e viene festeggiata clandestinamente anche nel carpigiano, facendo assumere alla Festa un forte significato simbolico di opposizione al fascismo. 

Mangiare i tortellini come avveniva nella tradizione socialista, indossare un fazzoletto rosso o portare un garofano all’occhiello il primo maggio implicava il rischio di essere bastonati dai fascisti. Ciò nonostante, durante il regime la comunità locale continuò a celebrare clandestinamente la ricorrenza nelle campagne locali o facendo spuntare volantini clandestini nelle poche fabbriche della zona. Nel dopoguerra, dalla strage di Portella della Ginestra in poi, la festa tornò ad avere un significato simbolico che non si limitava alla pur urgente necessità di sostanziare il primo articolo della Carta Costituzionale, nel quale si afferma che la nostra Repubblica è fondata sul lavoro.

È opportuno ricordare cosa è costato mantenere questa festa e la sua memoria per comprenderne appieno il significato, soprattutto oggi che il lavoro è cambiato e ha assunto mille forme. La Festa deve essere occasione di riflessione sulla nostra comunità e sul suo futuro e non può limitarsi alla polemica sugli esercizi commerciali aperti o chiusi. Soprattutto oggi che il lavoro manca perché la crisi sta colpendo duramente il nostro distretto. Quando c’è, il lavoro è inoltre troppo spesso insicuro. Mediamente in Italia ci sono più di tre vittime al giorno. Una ogni 8 ore, ossia la lunghezza di un turno di lavoro secondo gli standard novecenteschi. Ciò significa che ogni giorno un marcatempo, cartellino o badge timbrato in entrata è, tragicamente, destinato a non registrare un’uscita. Sempre più spesso inoltre oggi il lavoro è precario o malpagato. In queste terre poverissime nel secondo dopoguerra c’erano mestieri molto faticosi (mondine, trecciaie, braccianti, scariolanti, lavoranti a domicilio) svolti da quelli che una volta erano chiamati avventizi. Ciò ci ricorda come la precarietà del lavoro riguardasse anche le passate generazioni. Ma insieme alla fatica e alla precarietà, c’era un sentimento diffuso in quel tempo che oggi pare scomparso e che dobbiamo recuperare, ossia la speranza e la fiducia in un futuro migliore. Allora si trattava della speranza che la lotta per la libertà aveva ridato ai giovani e della fiducia che la sconfitta del fascismo e la fine della guerra avrebbero aperto una stagione di profondo rinnovamento e consentito alle generazioni coeve e successive un futuro migliore. E così avvenne.

Il contributo delle lavoratrici e dei lavoratori carpigiani fu fondamentale per costruire una città più prospera e coesa. In seguito ciò fu possibile anche grazie all’apporto che venne dagli immigrati meridionali di prima generazione, tra anni Sessanta e Settanta, che contribuirono a definire l’identità della nostra comunità. Così come può e deve accadere oggi con gli immigrati stranieri. Ricordare le origini e la storia del Primo maggio è utile non per celebrare una festa del passato, ma per guardare al futuro e rimettere al centro il lavoro inteso non solo come momento del processo produttivo, ma come luogo di affermazione della dignità delle persone e come priorità del Paese, se vogliamo delineare una prospettiva di futuro alla generazioni più giovani.

(il Presidente del Consiglio comunale Giovanni Taurasi)